Silvia Ghisio

Tu che sei psicologa del lavoro: ti accorgi se qualcuno ha problemi personali che si porta in azienda??

Tu che sei psicologa del lavoro: ti accorgi se qualcuno ha problemi personali che si porta in azienda??

Tu che sei psicologa del lavoro: ti accorgi se qualcuno ha problemi personali che si porta in azienda??




Ogni tanto dialogo con un caro amico ingegnere, di acuta intelligenza e curiosità che mi mette sempre alla prova, anche perchè parliamo in Inglese. 

E’ stato anche il mio mentore per questa hard skill e ha dimostrato tanta pazienza perchè mi ha incoraggiata ad esprimere concetti complessi in maniera semplice, tanti anni fa. 

Legge quello che scrivo con google translator e il nostro dibattito preferito è sui temi del People Management. Gli psicologi e gli ingegneri hanno molto in comune, fra cui la passione per l'analisi...

“Quindi tu vedi i problemi delle persone o no”? 

Come psicologa del lavoro mi capita di intervenire in percorsi di sviluppo individuale. In azienda è sempre finalizzato a obiettivi  specifici: 

  • di allineamento professionale
  • di riorientamento al ruolo, 
  • di sviluppo del contributo del singolo all’efficacia nel team o
  • relativi a far riconoscere le ownership del soggetto verso il  business, 
  • sviluppo di competenze relazionali specifiche che sono state identificate come oggetto di miglioramento a seguito di feedback da parte dl manager di linea ad esempio. 

Sono solo alcune casistiche.

Ogni situazione segue un proprio percorso, disegnato su misura in base a:

  • Effettive esigenze sentite
  • Effettive esigenze riconosciute
  • Effettive esigenze consapevoli
  • Effettive esigenze da rendere tali da parte del soggetto
  • Fondamentale esigenza di mettersi in gioco per “cambiare” ,funzionalmente al proprio ruolo in organizzazione. 

 Segue di solito una serie di passi definiti con trasparenza: 

  • su richiesta dell’interessato e del proprio capo, assieme al team hr, si ipotizzano aree di lavoro;  
  • in un primo incontro aperto ho l’obiettivo di stabilire un rapporto positivo e di fiducia e di comprendere se possiamo condividere alcuni obiettivi di lavoro. 
In questo caso l’obiettivo si raggiunge attraverso una relazione che deve poter funzionare su un patto preciso e su tematiche specifiche di lavoro congiunto.

Il fatto di essere psicologa mi rende ancora più attenta a definire gli ambiti di intervento perchè è molto importante poter offrire un’esperienza possibile, in base al contesto e in base al tempo che si ha a disposizione. 

Questa è la tipica situazione dove il rapporto di consulenza, che spesso coinvolge almeno 3 soggetti, deve svilupparsi con eticità ed equilibrio. 
Sei ingaggiato da una direzione aziendale - che è quella che pagherà le tue fatture per intenderci - tuttavia hai un cliente interno, con cui lavorare sul proprio sviluppo individuale dentro l’organizzazione stessa.

L’equilibrio passa anche per la capacità di instaurare quella relazione di fiducia che consente alle persone di comprendere che sei lì per loro e in quanto l’azienda sta investendo, ad esempio. 

Io di solito scrivo e disegno (su carta in questo caso perchè il pc sarebbe una barriera fra me e la persona) e prima di condividere gli obiettivi con Hr e con il responsabile della persone, li commento e condivido con la persona. Quello diventa il confine del nostro lavoro. 



Poi dobbiamo entrare nel merito di circostanze comportamentali e del vissuto che consentano alla persona di vedersi e riconoscere i comportamenti che funzionano e quelli che non funzionano nel contesto specifico. 

Come? 
  • nei miei rimandi, 
  • nei feedback che abbiamo analizzato per concordare gli obiettivi e che magari riaffiorano nel racconto degli episodi, 
  • nelle risposte ad alcune domande di rilancio, ad esempio.
  • nell’ipotizzare  alternative, desideri e nuove modalità funzionali all’obiettivo e  - al contempo - ad una situazione di maggior benessere per la persona nel contesto lavorativo e secondo l’assunto che la soddisfazione passi da una buona esperienza interna, anche di allineamento rispetto alle aspettative reciproche, di azienda e persona. 

Ho avuto una formazione sul campo di tipo psicosocioanalitico; per tre anni ho lavorato con  Sergio Capranico (googla il suo nome se sei nato dopo il 1985) e ricordo alcune risposte ad alcune mie domande da curiosa esploratrice della professione, ad esempio: 

Domanda: 
“è necessario scavare così? Ce l’hanno chiesto?” - lui arrivava dai T Group e iniziava le sessioni d’aula con il foglio (il lucido) bianco. Si lavorava molto sul “qui ed ora” e quindi si aprivano diverse “finestre sul processo” anche e soprattutto in merito alle dinamiche di gruppo … 

Risposta: 
“ricorda sempre che è nel nostro lavoro si rischia di aprire armadi da dove possono uscire scheletri.. Si aprono solo gli armadi che si è in grado di richiudere, assieme al contenuto”

Estrema attenzione quindi:
  • ogni parola restituita sulla lavagna,
  • o a voce,
  • doveva poi servire per ricostruire un senso,
  • quasi sempre afferente alla sfera razionale,
  • specialmente nei team dedicati alle professioni dove la relazione e l’attività di servizio offrivano grandi aperture sui temi dell’affettività. 

Questo ricordo è riferito a sessioni di gruppo. 




A livello individuale bisogna fare ancora più attenzione in quanto esistono dinamiche che favoriscono rispecchiamento, identificazione e possibilità di lavorare attraverso la relazione sulle competenze relazionali, ad esempio, e qui si “nuota a delfino” diceva spesso Sergio.

Le competenze relazionali infatti, le famose “soft skills”  o “life skills” come oggi si tende a d etichettarle, si esprimono in comportamenti in ambito lavorativo ma attingono al saper essere, alla sfera della persona e le modalità in cui si esprimono in azienda - spesso - riproducono lo stile relazionale appreso nel privato. 

Oggi piace molto dire che in azienda ci si prende cura della Persona nel suo insieme (e non solo della professionalità), anzi - viene bene definirla employee journey, employee experience: un viaggio insomma, che tiene conto del fatto che la persona possa - almeno in linea teorica - entrare in azienda ed uscirne arricchita sia dal punto di vista dell’employability ( più formato e quindi collocabile) che dal punto di visa personale.

Tuttavia credo che nessuno in azienda mi chiederà  di occuparmi di qualcosa di diverso dall’efficacia lavorativa della persona - e quindi indirettamente del suo benessere, sempre circostanziato al contesto aziendale. 

Anche voi avete la stessa sensazione? 

Ho risentito Sergio, con l’occasione, e Vi saluta anche lui. 


Silvia 



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