Silvia Ghisio

Come tu mi vuoi

Come tu mi vuoi

Come tu mi vuoi




Credo sia anche il titolo di un film che ho visto un paio di volte e che mi è tornato in mente di recente.
E’la storia di una studentessa brufolosa che viene allontanata e derisa da un gruppo di pari molto diversi da lei e di un giovane dagli occhi color catrame che le chiede ripetizioni e che fa parte degli “altri”.
Il gruppo godereccio, chiuso e forse un po' annoiato fa una scommessa, anzi … la più gelosa del gruppo lancia una sfida. Decide di dare all’imbranata ignara, lezioni di savoir-faire, utili istruzioni e indicazioni di stile, portamento e strategia. Lei ci prende gusto e ha un nuovo obiettivo: diventare bellissima per conquistare quel bel giovane dagli occhi color catrame…
Mi fermo qui perché nel frattempo ho “messo su google” e scoperto che il film esiste e compie 10 anni fra poco… “Vecchio” o “evergreen”?
Mentre scrivo penso alla divisa, alla formazione, all’inclusione del nuovo in un gruppo di lavoro, alle aspettative, al coraggio di essere Sé stessi, alla velocità del cambiamento.
Una volta il mio primo giorno di lavoro non mi mi fecero andare in punto vendita, indossavo una giacca classica di mia madre - avevo 19 anni -camicia bianca, jeans e scarpa classica. Mi spiegarono che a contatto con il pubblico in quel contesto e per quel brand, non fosse previsto il jeans, quale espressione di uno stile informale, non adatto al tipo di articoli trattati, né alla clientela. Il primo giorno vinsi così una formazione teorica sui prodotti, sul tipo di clientela e sullo stile da adottare, nell'accogliere, nel sorridere, nel guardare, nell'ascoltare, nel suggerire, nel confezionare il pacchetto – rigorosamente rosso, firmato e con il nastro posto in un certo modo, sempre quello. Lo stile replicato in ogni singolo dettaglio. Ancora oggi so fare i pacchetti in un certo modo, ma ultimamente preferisco limitare la carta e a volte scelgo quelle comode borse di stoffa…

Il secondo giorno indossai l’intero tailleur sentendomi vestita “della festa”, di certo molto distante dalla mia libera espressione quotidiana di teenager. Ma... ero una giovane “acqua e sapone” e la prima cosa che fece la collega esperta da cui dovevo apprendere fu prendermi per il mento sollevando il mio volto, sotto il faretto della vetrina, per poi aprire la sua trousse e scegliere i colori con cui truccare il viso tondo. Riga nera sotto e sopra, fondotinta, rossetto rosso, mascara.
Lavoravo p - time nel turno a copertura della pausa pranzo della collega che lavorava al mattino e di quella che enrava in servizio alle 15,30, facevo da "raccordo". Era - ed è tutt'ora - in un luogo scintillante, profumato e ricco del passaggio di molti turisti di tutte le nazionalità, oltre che di persone di tutte le età dedite agli acquisti top di gamma. Era il piano terreno di una grande boutique storica in Piazza Duomo a Milano; appena posso, passo e sorrido.


Prima di uscire mi lavavo il viso; col primo stipendio mi comprai completi miei che lasciavo nell’armadietto. Il momento di passaggio dallo spogliatoio segnava il passaggio mentale: “ora si gioca alla vendita”. Mi divertii parecchio.
Effettivamente le istruzioni d’uso, le indicazioni operative e le “abilitazioni” a esercitare un mestiere specifico in un dato contesto possono assomigliare a delle “iniziazioni” a volte. Quell’esperienza fu per me proprio il chiaro esempio della distinzione ruolo (addetta alle vendite reparto profumeria – settore lusso) / persona (teenager iscritta al primo anno di università – studentessa part time – esploratrice).
Le aspettative del datore di lavoro esplicitate in maniera molto pragmatica e rispettosa della giovane risorsa umana. In quel periodo ebbi anche un bel colloquio con la responsabile di reparto di cui ricordo ancora nome, cognome, occhi e riccioli morbidi color cenere. Fu molto importante, non dovuto e molto apprezzato. “Questa è una palestra” mi disse; indimenticabile.


In quanto al film mi rimarrà sempre il dubbio relativo alla “conversione” del giovane. Passato per una crisi esistenziale dopo una lite col padre, riconobbe, forse,  il vero Sé prendendo il coraggio di darsi delle risposte, anche attraverso autentico interesse verso il proprio futuro che passa per le scelte accademiche e lavorative.


In quanto alla giovane “secchiona”, ormai entrata nella parte di colei che sa e che sa apparire, a me personalmente rimane un dubbio: sarà stata più felice nella precedente autentica inconsapevolezza o nella scena finale del film?

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Siamo già connessi?